Riporto anche qui il mio articolo pubblicato una decina di giorni fa da comune-info.net, ormai uno dei pochissimi giornali (indipendenti) che riesco a leggere. Ho parlato di scuola, of course, della mia esperienza ma soprattutto delle prospettive, per fortuna condivise con moltissimi altri, che vorrebbero un concreto e sostanziale cambiamento del "sistema".
È da fine febbraio, appena prima del lockdown (sì, quando vivevamo spensierati persino ignorando questa parola, oltre che l’avanzata di quello che ormai si chiama “il virus”), che penso alla grande, grandissima occasione che la scuola – parlo soprattutto di quella pubblica – mi pare abbia gettato, nella stragrande maggioranza dei casi, alle ortiche. Certo, chiamare “occasione”, “opportunità” quella offerta da una pandemia a qualcuno sembrerà una bestemmia, eppure il Covid l’ha servita su un piatto d’argento. Forse però in questo piatto lucente qualcuno ha pensato principalmente a specchiarsi, buttando via frettolosamente ciò che conteneva.
Durante la “prima ondata”, gli eventi hanno rapidamente preso, nel giro di pochi giorni che si sono poi trasformati in settimane e quindi mesi, una piega talmente grottesca che quel sincero “Questa volta la scuola cambiamola, ma per davvero!” è rimasto, beffardo, nella testa, come un monito inascoltato e del tutto fuori luogo, almeno per le “logiche” scolastiche.
Cosa si intendeva con quella frase, che a onor del vero in pochi, pochissimi casi, a livello nazionale, aveva condotto già la scorsa primavera ad effettivi, incoraggianti, cambiamenti? Quanto si è realizzato laddove, evidentemente prima della pandemia, spirava un vento propizio per nuove, necessarie “colture”, ovvero: disfiamoci finalmente della valutazione (del resto ancora più insensata, in questo contesto “a distanza” e “pandemico”), facciamo di necessità virtù e cogliamo tutto quanto sta accadendo come un’occasione, come si diceva prima, come un’irripetibile opportunità di rinnovamento, di mettersi alla prova, di fare un esame di coscienza (noi che la scuola la “offriamo”) e di costruire qualcosa di nuovo, dimostrando agli alunni che la scuola (o meglio l’istruzione e la cultura) è vitale. Facciamo sì che gli alunni la rimpiangano, non solo per quanto riguarda la socialità e gli aspetti più “effimeri”, dimostriamo loro che si può contare su di essa, o almeno sulle persone che la animano; strappiamoli dal distanziamento fisico e sociale e indichiamo loro la via anche per quanto riguarda l‘uso delle tecnologie, intelligente e motivato. Se le famiglie non sanno e non possono, in moltissimi casi, fornire un supporto (psicologico, pedagogico, relativo alla spiegazione di quanto stia accadendo e alla sua narrazione bombardante) facciamolo noi: dimentichiamo il programma, (che neanche dovrebbe esistere ed essere più nominato), per farlo!
Trasformiamo la scuola, insomma, in qualcosa che va ben al di là di un edificio (al momento tra l’altro del tutto inaccessibile e precluso) e diamole nuova linfa abbattendo il nozionismo imperante fin dalla scuola primaria (o forse prima!?), l’idea che l’istruzione sia qualcosa da subire, anziché da vivere, le rigidità fisiche e mentali che ci e la affliggono: dal concepire appunto la scuola entro quattro mura, con i banchi, le sedie, la cattedra e tutto il corredo “obbligatorio”, alla suddivisione sempre più castrante e insensata in “materie”; dalla separazione fra mente e corpo, scuola e vita, due vasi non comunicanti ed ermetici, all’autoritarismo esasperato, sebbene sempre più “travestito”, passando per l’insensatezza di chiamare “comunità educanti” dei macrorganismi spersonalizzati e spersonalizzanti, costituiti da soggetti che non hanno nemmeno il tempo di conoscersi attraverso il dialogo e l’esperienza (pur condividendo cammini pluriennali).
Quello che è accaduto nella realtà è, per chi aveva pensato alla questione “istruzione” nei termini appena descritti, talmente misero che ora raccontarlo è quasi penoso. Bisognerà però pur farlo, in un contesto che ora, a quasi due mesi dalla “riapertura”, mentre vengono riproposte le stesse contraddizioni imputate alla sola Dad o Ddi e dunque alla scuola “non in presenza”, si rischia davvero di banalizzare il tutto, rimpiangendo un “buon tempo antico” nella stragrande maggioranza dei casi mai esistito.
Laddove la scuola non ha approfittato della “pausa Covid” per rivedere le sue priorità e contraddizioni, la Dad ha sicuramente estremizzato il tutto: come posso raccontare per esperienza, soprattutto alla scuola secondaria, si è approdati spesso all’accanimento nella valutazione, ormai ossessiva (dare voti è diventata questione ancor più sfuggente, aleatoria e ardua, per il docente armato di tutto punto ma del tutto impotente, con le armi spuntate, di fronte allo schermo del pc), che tutto ha realizzato fuorché il ragionevole proposito di smetterla, almeno in questo contesto stravolto, con l’ossessione del numero (o giudizio); all’esasperazione del compito a casa e della giornata scolastica basata sulla lezione frontale e la didattica “trasmissiva”; alla caccia al ladro e all’asino di collodiana memoria; insomma al vano quanto stolto tentativo di proporre un modello che già faceva acqua da tutte le parti attraverso lo schermo del computer, del tablet e del telefonino (non ragiono qui sulla questione altrettanto grottesca delle dotazioni tecnologiche: mi limiterò a osservare che spesso il tutto è stato liquidato fornendo tali apparecchi a chi ne fosse privo o non sufficientemente fornito, tappando un buco in un muro di mattoni con del nastro adesivo…).
La Didattica A Distanza – recentemente ribattezzata in Did, Didattica Integrata Digitale – ha dunque solo scoperchiato, non creato ex novo, una situazione già di per sé paradossale in corso nella scuola pubblica, rendendo palesi le storture e contraddizioni di un sistema a dir poco stantio, che si basa essenzialmente sulla coercizione. Quando questa viene a mancare, a causa della lontananza “dagli occhi e dal cuore”, come già sapevano gli antichi (mi vengono sempre in mente “I due fratelli” del commediografo latino Terenzio, l’uno allevato “col bastone” dall’intransigente Demea, l’altro con liberalità e fiducia dal “progressista” Micione) il sistema crolla, perché non vi è (quasi) null’altro alla base.
E quanto la cieca e ipocrita obbedienza, che sconfina, appena la catena si allenta, nel raggiro della dura legge, abbia effetti devastanti per il singolo e la comunità, credo sia sufficientemente sotto gli occhi di tutti, di questi tempi.
Che fare, dunque? Si badi bene: la scuola “a distanza”, si capisce, è in generale ancor meno democratica, incisiva, autentica ed efficace in quelli che dovrebbero essere (ma quasi mai sono) i suoi obiettivi di quella “in presenza”. Davvero, si può dire non sia nemmeno “scuola”. Il problema vero, quello che, se affrontato a dovere, permetterà il radicale rinnovamento-cambiamento di cui l’istituzione scolastica necessita (se mai esso avverrà) sta tuttavia più nella “D” di “Didattica”, che non nelle altre (quella di “Distanza”, che sottintende la parola “Digitale”).
Gli istituti in cui, dalla primaria alla secondaria di II grado, le cose già funzionavano, hanno probabilmente proposto una Dad di qualità, trovando dei ragionevoli compromessi che non hanno portato alunni (e famiglie) ad allontanarsi ulteriormente dalla scuola, o a “rimanere indietro” da un punto di vista cognitivo ma soprattutto sociale. Hanno escogitato soluzioni creative e partecipative per ovviare persino ai problemi insiti nel mezzo: una didattica che passa da un PC o da uno smartphone non deve per forza di cose essere un’istigazione a “delinquere” (inteso come eccedere) con la tecnologia, ma può fornire occasioni per riappropriarsi del proprio tempo, soprattutto in una situazione di “sospensione”, paradossalmente allontanando dal maledettissimo schermo, fornendo chiavi di lettura e spunti sull’inedito e (si spera irripetibile) periodo. Non si dice di non studiare Montale (o Manzoni, o Gadda), ad esempio, ma di leggere la realtà con le parole dei poeti e dei letterati, così come degli scienziati o degli uomini che hanno fatto la storia, a caccia di appigli per leggere il presente e dimostrare dove in fondo risieda l’essenza del sapere: nella sua capacità di farci elevare sopra le nostre miserie, distraendoci nel senso più nobile del termine e permettendoci (ben più dei social o della televisione) si sopravvivere conservando la nostra umanità e dignità.
A tutti i livelli, è possibile una didattica autentica che immerga con entusiasmo e interesse nella vita e nel mondo, anche in quello sempre più inaccessibile degli adolescenti, al posto di porsi come alternativa ad esso. Ci si può provare anche a distanza, se il tempo guadagnato a non interrogare con gli occhi bendati o a moltiplicare i compiti “in classe” inseguendo il mito dell’oggettività della valutazione viene investito nel trovare soluzioni creative e realmente efficaci, sebbene sempre manchevoli sul fronte della relazione, e non solo.
Chi ha colto la pandemia come un motore per un “adattamento in corsa” è poi tornato con altro spirito sui banchi lo scorso settembre, pronto a riprendere la sfida dopo poche settimane, con la non difficilmente prevedibile richiusura degli istituti. Tutti i coloro i quali hanno invece reiterato, per pigrizia, incapacità o superficialità le modalità trasmissive e i logori schemi in uso nella scuola in barba alle acquisizioni delle neuroscienze, della pedagogia “attiva” e della psicologia dello sviluppo, continuano ad acuire a loro stessi e ai loro studenti le pene connaturate a questo “insegnare” (attraverso uno schermo o meno).
Che fare, dunque? Siamo, fra gli altri, il paese della Montessori, di Don Milani, di Mario Lodi, Bruno Munari e Gianni Rodari: se ancora proponiamo una scuola “gentiliana” che scontenta tutti e non accontenta nessuno – nemmeno chi in primis la “somministra”, come un farmaco – guardiamo innanzitutto a queste esperienze, ancora (inspiegabilmente?) peregrine e clandestine per rinnovare l’insegnamento e gli insegnanti della scuola pubblica. Attingiamo, e non ignoriamo o peggio contrastiamo il fermento – davvero notevole – che si agita fuori dall’istituzione, fra scuole “alternative” e scuoline, realtà parentali e persino chi della scuola fa a meno del tutto per “imparare dalla vita”, i cosiddetti “unschoolers”.
Un mare forse non così “magnum” ma in netta crescita, con le idee chiare sulle problematiche della scuola (quelle “vere”, di fondo) e prospettive che, almeno in alcuni casi, possono trovare cittadinanza anche nel sistema scolastico da cui insegnanti, educatori o genitori sono scappati coi loro studenti. Il cavallo di Troia in questo senso potrebbe essere l’outdoor education, già sdoganata nel Lazio, che (toh!) avrebbe potuto dare una grossa mano già dallo scorso 14 settembre, così com’è stato nei “soliti pochi, pochissimi” istituti. Oppure il metodo Montessori, altrettanto ben accetto al Miur e in crescita anche nella scuola secondaria, o ancora l’Educazione diffusa (leggi anche Manifesto per l’educazione diffusa).
L’importante è agire in fretta, proprio ora che i due contesti – quello interno e quello esterno al “sistema” – paiono più lontani ed estranei che mai (sebbene in fondo accomunati dalle medesime restrizioni). Del resto il consulente per l’innovazione della ministra in carica è Giuseppe Paschetto, “paladino” della didattica all’aria aperta e autore di un libro che abbatte molti falsi miti legati alla professione e traghetta nella scuola di Stato molte buone pratiche in uso “fuori”, dall’abolizione dei compiti a quella (parziale) delle verifiche. Sta’ a vedere che, magari, qualcosa si (s)muove.
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