Mi viene da sorridere pensando che il contenuto di questo articolo è praticamente lo stesso di un tema che diedi tre anni fa in una prima media.
L’argomento “guida” dell’anno, almeno per quanto riguardava la mia materia principale, italiano, era proprio la scuola: al passaggio (tanto temuto, mi dicevano loro) dalla primaria, in un contesto nuovo, anche per me - che ero solo alla seconda esperienza nella scuola media - proposi agli alunni di ragionare sull’istituzione scolastica in vari modi e contesti. La cosa nacque un po’ per caso, senza premeditazione, a partire dall’occasione ghiotta di avere studenti all’inizio di un nuovo ciclo. Ne risultò un percorso piuttosto articolato, che appunto contemplava anche una riflessione (praticamente un'inchiesta travestita, da parte mia!) sulla scuola “dei sogni”.
All di là delle immancabili trovate “bislacche” (un enorme distributore di dolci o la possibilità di “fare gossip” tutto il tempo) lessi cose che mi confermarono, una volta di più, quanto poco la scuola “vera” rispondesse alle esigenze emergenti in maniera più o meno nitida dalle parole dei ragazzi.
Dubbi ne avevo avuti quasi da subito, a partire dal secondo anno nel liceo delle Scienze Umane in cui feci le mie prime supplenze, diretto da un preside “filantropo” con (non a caso) una formazione pedagogica, estremamente volto al “nuovo” e a sondare i bisogni degli studenti, frequentemente interpellati e chiamati a dire “la loro”.
Per farla breve (ma non troppo…!), posso dire che la scuola che vorrei dovrebbe essere innanzitutto retta, pensata, gestita da persone che conoscono DAVVERO bambini e ragazzi. Che sono a conoscenza del loro “funzionamento”, e che siano decise a considerare tutto ciò come prioritario. Si parla spesso di docenti che scelgono l’insegnamento come ripiego, e dunque poco motivati e impegnati… O ancora di insegnanti non preparati (“cattedraticamente” parlando), per questo non degni di esercitare la professione, che farebbero meglio a “tornare a scuola da studenti”… O ancora di quelli poco carismatici e appassionati, ben lontani dalla figura del professore impersonato da Robin Williams ne “L’attimo fuggente”. Ma i docenti che non sanno e non considerano, ad esempio, che per un bambino che non si muove e non ha relazioni (come durante il non lontano “lockdown”) è fisiologicamente impossibile imparare qualcosa, così come uno stressato o impaurito, magari dall’insegnante stesso? Quelli che ritengono perfettamente “normale”, dalla loro prospettiva di adulti sedentari, restare ore e ore su una sedia, chiusi entro le quattro mura dell’edificio anche per l’intervallo, e che si indignano se un bambino prova l’irrefrenabile voglia di correre per il corridoio o all’uscita da scuola? Ignorare come sia “progettato” un bambino porta danni ingenti a insegnanti e genitori e soprattutto ai malaugurati figli e studenti; erige muri di incomprensione rafforzati dalle reciproche frustrazioni e insuccessi.
La prima cosa che mi viene da pensare, dunque, è la presenza di persone non solo motivate, empatiche e capaci, a vari livelli, quanto ben (in)formate su ciò che stanno facendo e sui soggetti coi quali stanno operando. Innamorati innanzitutto dei bambini e dei ragazzi, intenzionati a lavorare con loro, prima che con le varie “discipline” o “materie”. Da ciò verrebbe il rispetto, il fatto di considerarsi o meglio ambire a essere delle guide, degli esempi, senza ergersi tuttavia sul piedistallo in maniera egocentrica e adultocentrica (considero l’egocentrismo una piaga del corpo docente, o probabilmente degli adulti in generale, che porta ad allontanarsi dal desiderio e dalla possibilità di venire incontro ai bisogni e ai desideri dei bambini).
“Democrazia” è una parola spesso abusata nella scuola, eppure così poco presente: ho visto più volte sguardi increduli quando ho invitato i miei alunni a discutere di questioni di vita pratica e collettiva che non si sarebbero aspettati potessero essere messi in discussione… Nella scuola che vorrei, invece, la discussione, ragionata e partecipata, non mancherebbe mai. Gli insegnanti non avrebbero paura di rispondere alle domande, ai dubbi, alle provocazioni degli alunni, ma ne farebbero tesoro anche per le stesse lezioni. Il confronto non sarebbe temuto ma anzi spesso e volentieri cercato, così da far sentire gli studenti davvero protagonisti, e non solo “ospiti temporanei”. Le regole non mancherebbero ma sarebbero frutto di scelte il più possibile condivise dalla comunità, mai assolute e cristallizzate ma sempre passibili di essere ridiscusse, aggiornate, scardinate, se occorre e tutti sono d’accordo.
Dai due punti appena esposti - insegnanti che “conoscono” gli studenti e clima democratico, ma non anarchico - consegue una didattica altrettanto democratica e vicina al vissuto degli alunni, esperienziale, significativa. Senza paura di “abbassare gli standard” (sempre più bassi, ma non per questo motivo, semmai il contrario!), né di mettersi in gioco o faticare di più , sarebbe bello che i docenti dimenticassero una volta per tutte il concetto di “programma” per decidere cammin facendo il percorso da seguire, orientandosi a seconda dei desideri, degli stimoli, delle capacità e degli interessi degli alunni. Ogni classe, ogni alunno è diverso dall’altro… non può esistere attenzione e cura con liste standardizzate di argomenti da svolgere costi quel che costi, sempre in lotta col tempo. Una paranoia che fa sentire qualche insegnante un eroe quando riesce a fare tutto quanto preventivato a inizio anno che produce menti “ripiene”, “rimpinzate” di contenuti pronti a perdersi per strada non appena si cambia argomento o si svolge la verifica…
E poi sì, tra mille altre cose (fra cui il tempo e lo spazio, che mi impongo di non affrontare ora), la grande questione della valutazione… L’oggetto del contendere fra chi, difendendo “il buon tempo antico”, vede l’abolizione di voti e giudizi come uno scandalo e chi invece vorrebbe provarci e ci prova, supportato da studi e pareri autorevoli che non sono frutto di mode temporanee, ma delle neuroscienze, della psicologia e di tradizioni pedagogiche consolidate (ce ne sono nell’altro senso?!).
Insomma, dato che il mio essere mamma ha profondamente cambiato il mio essere insegnante, una scuola capace di continuare nel solco della “disciplina dolce”, nella convinzione che così non si induca al lassismo, non si diventi “amiconi” anzichè guide sicure di ragazzi in cerca di punti di riferimento… ma si contribuisca piuttosto, in maniera efficace e non autoritaria, al costituirsi libero di un’identità solida, dell’autonomia, del senso di responsabilità che nasce dalla comprensione e condivisione delle norme dl vivere civile e non dalla cieca e ipocrita ubbidienza.
La scuola non vuole cambiare perchè ciò comporta costi, ma soprattutto rischi. Di questi tempi si rischia di essere etichettati come "complottisti", ma non è un mistero che il potere voglia il mantenimento dello status quo, e tutto ciò cozza a dir poco con un'educazione improntata a libertà, autonomia, espressione di sè ecc. La scuola tradizionale è nata con scopi e su assunti ben poco vicini a tutto questo, che pur ora figura sulle linee guida e nei famosi "PTOF" dei vari istituti. Purtroppo, nella mia esperienza, le parole e forse le intenzioni (di alcuni, pochi) sono buone, ma nei fatti il sistema impone cose che sono semplicemente incompatibili con una "buona scuola": i numeri, che tu stessa citi, ma…
Eccomi! Godo e inorridisco. Godo nel trovare menti aperte, sensibilità pronte alla verità, come te. Inorridisco perché come sai tutto ciò che riporti fotografa una realtà amara. La scuola non ha voglia di cambiare perché variegare l'offerta è molto più impegnativo, omologare è facile (così credono): ma quanto costa portarsi dietro 25 alunni diversi pretendendo che siano uguali? E poi, come dici, non vengono rispettate nemmeno le basi che sarebbero davvero simili per tutti, perché intrinseche nella natura dei bambini e dei ragazzi: muoversi, emozionarsi, alzarsi, correre. Con l'immagine degli alunni che corrono nei corridoi, e che troppo spesso ho sentito rimproverare, hai detto tutto.